Mestieri del Cinema – Emanuele Cicconi, tecnico del suono
Il mestiere invisibile del suono nel cinema. In questa intervista, Cicconi ci accompagna dentro il suo mestiere, aprendoci le porte di un’arte silenziosa ma essenziale, lo strumento narrativo capace di toccare lo spettatore senza essere visto.
Nato e cresciuto a Santa Vittoria in Matenano (FM), un piccolo borgo marchigiano lontano dai grandi centri dell’industria cinematografica, Emanuele Cicconi ha saputo costruirsi una carriera solida nel mondo del suono per il cinema. Dopo la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo, la sua decisione di diventare tecnico del suono nasce da un misto di intuito e passione per quell’universo invisibile che plasma l’emozione dello spettatore.
Foto di Emanuele Chiari
Quest’anno, la sua terza candidatura ai David di Donatello sancisce un traguardo importante in un percorso fatto di ascolto, precisione e sensibilità artistica. In un mondo cinematografico sempre più spinto verso l’efficienza digitale e l’automazione, Emanuele Cicconi ci ricorda che la vera differenza la fa ancora l’ascolto umano, quell’attenzione ai dettagli invisibili che trasformano un’immagine in un’esperienza.
La sua candidatura non è solo il riconoscimento di una carriera tecnica impeccabile, ma anche di una sensibilità capace di dare voce a ciò che spesso resta nascosto. Un viaggio, quello di Emanuele, che continua ad ascoltare, cercare, raccontare. Come in questa intervista per la nostra rubrica.
Sei nato e cresciuto a Santa Vittoria in Matenano, un luogo distante dai grandi centri dell’industria cinematografica. In che modo questo contesto ha influenzato il tuo sguardo e il tuo approccio al lavoro?
Crescere sui Sibillini ti dà una tempistica diversa su quello che fai, un tipo di attenzione differente. Questo influisce su come affronto il lavoro quotidiano, la vita. Quella dimensione di paese è un’impronta che mi porto dietro quotidianamente e la riconosco come un atteggiamento differente rispetto a quello che ti porterebbe ad avere la vita da cittadino.
Non saprei definire con precisione come questo influenzi tecnicamente il mio approccio professionale, ma sicuramente costituisce l’essenza del mio sguardo sul mondo. Quei paesaggi sonori della montagna marchigiana rimangono impressi, diventano parte della tua grammatica espressiva.
Dopo la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo alla Sapienza, ti specializzi al Centro Sperimentale. Cosa ti ha spinto a intraprendere la strada del tecnico del suono? È stata una scelta istintiva o maturata nel tempo?
Il mio avvicinamento al suono non è stato casuale ma frutto di una convergenza di interessi. Sono andato a Roma per studiare teatro, alla Sapienza, per studiare Eduardo De Filippo e mi sono laureato in quello. Ho iniziato lavorando in teatro come tecnico e poi ho realizzato dei documentari durante il dottorato all’università, sempre su Eduardo. Prima di morire, Eduardo ha tradotto “La Tempesta” di Shakespeare in napoletano seicentesco e ha fatto un’opera sonora registrando e interpretando lui stesso tutti i personaggi.
Il reparto suono di “Campo di battaglia”, da sinistra: con Andrea Colaiacomo, microfonista, Emanuele Cicconi e Flavio Rocchi, utility (foto di Emanuele Chiari)
Quell’opera era rimasta negli archivi del Teatro Ateneo della Sapienza. A un certo punto ho sentito il desiderio di recuperare quelle bobine per restaurarle; quindi, ho fatto domanda al Centro Sperimentale perché volevo approfondire le tecniche per poter realizzare quel lavoro.
Quello che è iniziato come una passione è diventato poi il mio lavoro. Ho abbandonato la ricerca su Eduardo e mi sono dedicato completamente a questo, facendo tanta gavetta, lavorando a molti documentari, progetti televisivi e cortometraggi.
Quando ricevi una nuova sceneggiatura di un film o di un progetto, quali sono le prime cose che riesci ad “ascoltare” oltre che a leggere tra le parole? Quali sono gli elementi sonori che emergono dalla pagina scritta? È un lavoro che fai in sinergia con l’autore o attraverso intuizioni autonome?
È sempre una sinergia, a volte più prolifica, a volte meno. Quando ricevo un progetto nuovo di cui non conosco niente, oppure un progetto di un regista con cui lavoro da tempo per cui magari ho già letto le prime versioni, l’approccio è diverso. Con una persona con cui collaboro da tempo, magari intervengo già in fase di scrittura. Mi è capitato di suggerire spostamenti di location per evitare problemi tecnici.
Quando invece mi arriva uno script già definito, inizio leggendo la sceneggiatura e appuntando sia le problematiche tecniche che le scene in cui c’è un’organizzazione più complessa della ripresa. Per queste scene dobbiamo ragionare con la regia, la produzione o la fotografia per trovare una soluzione che sia adeguata anche per la presa diretta. Oltre agli aspetti tecnici, ci sono poi le suggestioni.
Leggendo la sceneggiatura posso intuire dove un elemento sonoro potrebbe contribuire alla narrazione. Durante le riprese a volte indico al regista particolari sonori che potrebbero valorizzare la narrazione. Questa è la parte più creativa della presa diretta. È importante essere in sintonia con la visione narrativa del regista di quella storia. Lavorando più volte con lo stesso regista, come con Gianni Amelio, si inizia a entrare nei suoi meccanismi di pensiero e diventa più facile inserire il proprio contributo.
La presa diretta e la post-produzione sono due aspetti differenti del lavoro di un tecnico del suono, tra la cattura immediata del suono e la sua elaborazione fatta in studio, dove collochi la tua identità artistica?
Io adesso faccio soltanto il fonico di presa diretta, ho fatto pochissimi lavori di post-produzione. Mi sono sempre dedicato alla presa diretta, quindi mi sento più affine a questa. Però è presente una continua collaborazione tra mondi, perché anche se sono affine alla presa diretta penso sempre a come il materiale verrà lavorato successivamente.
Foto di Emanuele Chiari
Produco materiale pensando a come verrà utilizzato, anche se non sarò io a farlo. Cerco di agevolare il lavoro di chi verrà dopo di me, pur sapendo che ci sarà anche la sua parte creativa che contribuirà sulla base che gli ho fornito dal set.
La componente artigianale è quindi più tua rispetto a quella tecnologica che fa più capo alla post-produzione. Come si riesce a mantenere viva la creatività in una professione così apparentemente tecnica?
Cercando di tenere sempre il focus sulla storia che si sta raccontando in quel film o in quella serie, cercando gli elementi che posso registrare per avvalorare quel discorso. Per esempio, nella serie a cui sto lavorando, per caratterizzare un personaggio abbiamo fatto con l’attore dei provini con diversi tipi di microfoni per capire quale fosse la migliore risposta per quel personaggio, per la sua voce e per l’interpretazione che doveva fare.
Insieme al regista e all’attore, abbiamo valutato le diverse opzioni e scelta quella più adatta. Alla fine, sarà una piccolissima sfumatura, che forse riconoscerò solo io, ma è comunque un piccolo contributo al racconto, un aspetto che lega la tecnologia a un risvolto più artistico sulla narrazione. La tecnologia è andata molto avanti, i microfoni hanno dinamiche incredibili rispetto anche solo a 15 anni fa.
Oggi abbiamo microfoni, registratori e sistemi radio perfezionati. Tecnicamente sbagliare è difficile perché la tecnologia oggi supporta in maniera significativa il lavoro. Se segui le basi, con la tecnologia di adesso riesci a fare tantissimo. Ma si può fare ancora di più dedicandosi ad altri aspetti: non avendo più problemi di rumori di fondo, possiamo lavorare sul “colore” dei microfoni, sceglierli in base ai personaggi, lavorare sulla caratterizzazione anche da quel punto di vista.
Se 20-30-40 anni fa bisognava sopperire a certe mancanze tecnologiche, possiamo dire che adesso la differenza la si può trovare in chi sa dare quel colore, quella sfumatura in più?
Sì e anche nel riuscire a sfruttare al meglio quello che la tecnologia, ora estremamente avanzata, ci può dare. Riusciamo a fare tante cose in più anche a livello di organizzazione del set. Se c’è una scena più complessa con playback della musica o altre esigenze particolari, oggi possiamo orchestrare tutto meglio in funzione della presa diretta.
Sul set di “Campo di battaglia” di Gianni Amelio (foto di Emanuele Chiari)
Se prima per certe scene complesse si doveva ricorrere solo all’audioguida per poi ricostruire tutto, adesso la tecnologia ci permette di fare anche scene particolarmente complesse in presa diretta.
Con l’esplosione dell’intelligenza artificiale, come ti immagini il futuro del settore, sia nel campo del sonoro sia nel mondo del cinema, in cui la componente di sensibilità artistica umana fa la differenza?
È indubbio che l’elemento umano resterà importante nel cinema, almeno per come lo conosciamo adesso. Non so fin dove potranno arrivare gli sviluppi dell’intelligenza artificiale, ma l’interpretazione di un attore è qualcosa di difficilmente sostituibile.
Magari ci abitueremo a qualcosa di diverso e non ne vedremo più la differenza, ma è difficile abituarsi a una cosa meno bella se conosci quella più bella. L’improvvisazione, la micro-improvvisazione all’interno di qualsiasi scena interpretata è un qualcosa di cui si potrà riconoscere la mancanza.
Il mestiere del tecnico del suono richiede una capacità di ascolto molto sviluppata. Questo allenamento all’ascolto ha cambiato anche il tuo modo di stare nel mondo fuori dal set? Cerchi di avere un orecchio attento anche nella vita quotidiana?
Indubbiamente ti porti dietro l’essere molto attento ai suoni che ascolti. Nella vita quotidiana trovi dei suoni interessanti e ti soffermi a ragionarci sopra. Ma un altro aspetto del lavoro della presa diretta è quello di estraniarti con le cuffie e dedicare l’attenzione a quelli che sono i fondi, ai livelli del parlato e ai suoni che possono disturbare.
Foto di Emanuele Chiari
Questa capacità di straniamento la porti anche nella vita quotidiana e questo fa sì che tu possa stare anche in mezzo al caos ma riesca comunque a estraniarti da quello che c’è intorno, per quanto invadente possa essere. Se posso scegliere, io vivo in campagna e sto in montagna quando posso, quindi il silenzio lo preferisco, però ho imparato a estraniarmi anche quando c’è confusione.
La tua recente candidatura ai David di Donatello per “Campo di battaglia” di Gianni Amelio rappresenta un importante riconoscimento. Cosa significa per te questo traguardo?
Essere entrato nella cinquina dei David è un riconoscimento che mi onora profondamente e mi rende molto orgoglioso. È la mia terza candidatura, tutte per film diretti da Gianni Amelio, una coincidenza non casuale. Questo perché è un grande autore, una persona eccezionale.
Quando lavoro con lui, tutte le cose sono esponenziali, ci sono dei ragionamenti da parte mia e altrettanti da parte sua. La sua attenzione per il suono è estrema e la sua conoscenza anche tecnica del lavoro sul suono è formidabile. Non credo sia un caso che siano tutti film di Gianni Amelio quelli per cui sono entrato in cinquina.
Questa è la tua terza collaborazione con Gianni Amelio dopo “Hammamet” e “Il signore delle formiche“, come si è evoluta nel tempo la vostra collaborazione artistica e in che modo è cambiato nel tempo il modo di lavorare insieme? C’è qualcosa che ormai non c’è neanche bisogno che lui ti dica o viceversa?
L’intesa si è progressivamente affinata, ma esisteva già fin dall’inizio. Con Gianni abbiamo avuto immediatamente un grande feeling per quello che riguardava il nostro modo di vedere la presa diretta, perché è una persona estremamente preparata tecnicamente.
Il rapporto si è evoluto perché, imparando a conoscerci, la comunicazione è diventata più immediata, ma era una cosa che funzionava già dal primo film perché lui ha una profonda conoscenza di come funziona tecnicamente il lavoro sul set e dopo.
Già dal primo film mi è capitato che durante un monologo molto lungo di Favino che interpretava Craxi, Gianni non ha dato lo “stop” quando l’attore ha sporcato le ultime battute. Eravamo lontani, non ci vedevamo tra i monitor e la mia postazione, però io sentivo che andava dato lo stop e quella era l’unica soluzione tecnica per salvare il monologo tenendo quel fondo su cui si poteva lavorare, altrimenti sarebbe stata una scena da rifare.
Foto di Emanuele Chiari
Gianni l’ha tenuta e quella scena è nel film, montata perfettamente. Ha dato narrativamente qualcosa a quella scena. Questo per dire che non c’è stato bisogno di creare una sintonia perché lui aveva già un’attenzione estrema sulla presa diretta, posso quasi imparare da lui.
“Campo di battaglia” è un’opera che racconta tensioni e disillusioni attraverso silenzi carichi di significato. Come si costruisce un paesaggio sonoro capace di sostenere emozioni sospese senza sovrastarle?
Abbiamo lavorato cercando di rispettare quello che era il suono di quegli ambienti. Molte scene sono in montagna, eravamo su questi forti della Prima guerra mondiale con la neve, con atmosfere e suoni rarefatti. Abbiamo cercato di rispettarli e di portarceli a casa, cercando di trovare una collocazione sonora anche a quei silenzi in quegli ambienti. Una cosa importante, soprattutto nei film d’epoca come il nostro, è che l’atmosfera di un ambiente è un elemento sonoro importante.
Ogni ambiente ha un suono, ogni location ha un suo colore, ed è importante farci attenzione e assecondarla se può funzionare per la storia. Bisogna assecondare quel colore degli ambienti, che possono essere interni o esterni, come potevano essere gli esterni fuori dai forti alle due di notte con la neve.
Con gli anni ho iniziato a vedere sempre di più la combinazione tra attori e ambiente. Prima di girare una scena so già quale microfono scegliere per quella situazione, so che quell’ambiente con quegli attori che hanno quel tipo di voce funzionerà meglio con un certo microfono rispetto a un altro. Anche questo è in linea con il rispetto dell’ambiente.
Parliamo di cose sottili, una piccola parte del mio lavoro perché il resto è tecnico, non significa però avere libertà totale. Il lavoro è per l’80-90% tecnico, però per quell’altro 10-20% c’è spazio per queste scelte.
In “Campo di battaglia” il realismo è stato quasi la guida per il suono in certe scene, ma sono presenti anche molti silenzi. Quando il silenzio diventa protagonista, come si lavora sulla costruzione del suono, considerando che questo è paradossalmente definito dalla sua assenza?
Lì si lavora portando a casa tanti più elementi possibili, perché quello è un lavoro che si fa in post-produzione. Quello che puoi fare in presa diretta per seguire quella linea è prendere più elementi possibili in modo tale da poterli gestire dopo per tirare fuori quell’ambiente che il regista sta cercando.
Questo significa che prendi un ambiente di quella situazione, magari nella presa diretta ci sono pochi suoni perfetti, però magari hai trovato in quella location un fruscio di un ramo interessante, un cinguettio in lontananza, elementi che possono costruire poi quel silenzio che si va a ricercare, modulati nella maniera giusta.
Si tratta di cercare gli elementi che potranno essere più utili per questa costruzione che verrà fatta in seguito. Non è sempre possibile nel momento in cui giri la scena fare tutto questo lavoro di ricostruzione degli ambienti in presa diretta. Ci possono essere i passi dell’operatore, un carrello o altri disturbi inevitabili. Sta quindi alla sensibilità del sound designer ricostruire e ricreare anche i silenzi e la relazione tra alcuni elementi.
In questo progetto qual è stata la sfida sonora più complessa? E quale intuizione ha rappresentato, a tuo avviso, un valore aggiunto decisivo?
Ragionando adesso, non c’è stata una vera e propria sfida sonora in questo film. Forse la sfida è stata quella di stare attenti al profumo e ai colori dei suoni degli ambienti che avevamo, alle sfumature e ai colori della voce, riuscire a portare questi piccolissimi dettagli nell’insieme del film. Questi sono i dettagli che hanno fatto la differenza e sono stata anche la mossa vincente.
A volte sono dettagli che registri, a volte sono solo intenzioni che hai, ma che poi vengono sviluppate in post-produzione. Magari quel piccolo dettaglio che hai voluto portare a casa è stato poi sviluppato dai montatori del suono e nel missaggio è diventato qualcos’altro, ma sempre in funzione del racconto della storia.
Avendo esperienza sia nell’ambito cinematografico che in quello delle serie televisive, percepisci differenze significative nell’approccio al design sonoro tra questi due linguaggi?
Tra le serie TV e il cinema non c’è differenza, è lo stesso tipo di lavoro e lo stesso tipo di attenzione. Anche perché le serie di adesso sono molto cinematografiche. Stiamo facendo una serie che è completamente cinematografica.
Diverso è il caso delle soap opera o delle serie quotidiane, che sono un altro tipo di lavorazione. Lì si lavora principalmente con radiomicrofoni perché si devono girare molte pagine al giorno. È un altro tipo di approccio al lavoro.
Con le serie TV e il cinema non ci sono differenze, è la stessa cosa. Mentre con la televisione che ho fatto prima, come serie documentarie o interviste, c’è un’enorme differenza nell’approccio.
Il suono cinematografico resta spesso il grande protagonista invisibile, raramente apprezzato consapevolmente dal pubblico. Quale messaggio vorresti trasmettere a chi aspira a intraprendere questa professione? E dopo anni di ascolto professionale, quale suono o silenzio continua a emozionarti profondamente?
Il consiglio a un giovane che vuole intraprendere questo lavoro è di guardare e soprattutto ascoltare tanti film e non sottovalutare la preparazione tecnica. La tecnologia oggi spinge molto a fare perché sono tutte cose molto facili da approcciare e quindi spesso le persone sottovalutano l’aspetto tecnico.
Foto di Emanuele Chiari
Mi è capitato spesso, lavorando con giovani o tenendo corsi, di notare questa cosa. Invece qualsiasi lavoro tecnico non può prescindere dalla conoscenza assoluta di quello che vai a fare. Devi essere preparato tecnicamente, questa è una cosa importante perché è quello che manca tantissimo.
Per quanto riguarda un suono o un silenzio che mi porto dentro, penso alle campane di Santa Vittoria in Matenano, il mio paese. Il campanile, la campana storica, quel suono me lo ricordo ancora perfettamente. È un ricordo d’infanzia, un posto dove ritornare con la mente. Ci passo gran parte dell’anno quando non sono fuori per lavoro.
Dopo questa candidatura per “Campo di battaglia“, se potessi avere una bacchetta magica quali orizzonti professionali vorresti che il futuro ti proponesse? E cosa desidereresti che il pubblico imparasse a percepire nei film che contribuisci a creare?
Con la bacchetta magica mi aprirei una scuderia, questo vorrei fare! Ma più seriamente, quello che vorrei è che il pubblico facesse attenzione a quelle sfumature di cui parlavamo prima, che poi emergono nel film: i piccoli dettagli, i respiri, il colore della voce, come questi elementi possono raccontare un personaggio.
Vorrei che il pubblico notasse queste piccole sfumature che contribuiscono alla narrazione complessiva del film, quelle scelte creative che completano il lavoro tecnico e danno anima al suono di un film.
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